La scuola e
Il pericolo della logica.
Ho sempre ammirato gli scrittori di frontiera. Dostoevskij ad esempio. Ma anche Kafka, Nietzsche, Kierkegaard, Rimbaud. Perché come scrisse uno di loro, quelli che “vanno sempre all’ultimo confine, passano sempre il limite”. Non solo in arte ma anche e, soprattutto nella realtà, questo è probabilmente vero. Chi si spinge fino al limite del consentito, del buon costume e della morale, chi anche soltanto osa guardare al di là del lecito, ha già oltrepassato la frontiera, si è già congedato da questo mondo. Pensiamo al Caligola. In questo personaggio tutto si capovolge, si trasforma, sprofonda e poi risorge, in equilibrio precario fra logica e follia, fra rivolta e parodia.
È difficile incastrare Caligola in una formula o in un ruolo: egli sfugge alle definizioni come al dolore, nel suo delirio che tutto vuole e tutto perde, nella sua passione troppo pura per la vita. Così come non è possibile “incastrare” la scuola declinandola in un solo contesto, una contraddizione che non può confinare la stessa innalzando un muro di cinta, non può contenerla in una rigida macchina burocratica fatta di cosiddette buone leggi che di buono hanno ben poco; necessariamente bisogna ripartire dal considerare le persone in quanto tali e per farlo la prima agenzia formativa deve cucirsi addosso un abito diverso nei diversi contesti , per inserirsi in quel processo continuo esperienziale, sperimentale, di crescita dove ognuno, coinvolto nel progetto, si senta accolto e valorizzato come persona ,partendo dalle proprie potenzialità, includendo chi in parte è già stato escluso da questa società che paradossalmente doveva accogliere; coniugare la visione olistica di una scuola, dove il tutto è l’insieme delle parti, significa non lasciare nessuno ai margini, per esplicare in pieno i dettami costituzionali ad essa sottesi. Ed è alle “comunità” che il pensiero riformatore deve tendere, per offrire non una ma le tante varianti e stili di scuola possibile e accessibile a tutti. Guardare alla territorialità, alla prossimità per costruire ,insieme con i vari attori istituzionali, il motore propulsore della crescita di ogni nazione.
Una scuola fatta non più di programmi calati dall’alto, aboliti, tra l’altro, da quasi un decennio e ancora troppo prepotentemente tenuti in vita da una larga maggioranza di dirigenti e docenti, ma di progetti di vita che tengono conto della singolarità e complessità della persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. L’azione educativa deve riguardare tutti gli aspetti che compongono la personalità umana declinando le competenze-chiave europee: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, affettivi, spirituali.
In questa prospettiva, ci si chiede se i docenti e i dirigenti, reclutati secondo la normativa vigente, sono in grado di pensare e realizzare quel progetto non per individui astratti, ma per persone che sollevano precise domande esistenziali , che vanno alla ricerca di orizzonti ricchi di “significato”. Perchè è alla scuola e nella scuola che ricade il compito di esplorare gli infiniti orizzonti che aprono a infinite prospettive, orizzonti che ad una certa parte della società, conservatrice e un po’ stagnante, possono apparire come scomodi poiché fanno emergere le mille e una contraddizioni delle tante anime che contraddistinguono la nazione.
L’aula diventa non solo l’agorà del confronto, dei punti di vista che aprono alle tante possibilità, ma anche il luogo della creazione dei pensieri, del coraggio di mettersi a nudo che delinea e fa crescere personalità altre, non conformate, fuori dal coro, quelle che fanno più paura. La scuola deve osare, uscire allo scoperto, calarsi nelle realtà sapendo affrontare i repentini mutamenti sociali. Deve evolversi con l’evolversi delle società, cambiare, organizzare, gestirsi di pari passo, deve aprirsi ai sempre nuovi scenari che portano con se le molteplici problematiche di un oggi incostante, troppo indifferente, a volte sordo alle grida di aiuto provenienti dalle più disparate parti sociali e soprattutto dalle cosiddette fasce deboli. Detto ciò la domanda fatidica che ci si pone è: la scuola riesce a intercettare, ascoltare e in parte risolvere quel corto circuito dell’anima per far crescere generazioni che sappiano riconoscere le difficoltà, affrontarle con il giusto distacco affinché non prendano il sopravvento? E’in grado di valutare portando fuori il cosiddetto merito che attualmente è prerogativa di pochi e fa paura a tanti? È capace di formare nuove classi dirigenti in grado di ripensare e ridisegnare nuovi modelli produttivi come quello dei distretti industriali che hanno profondamente inciso sullo sviluppo economico italiano e sono stati presi a modello in Europa e nel mondo? E quanto necessario e importante diventa il far comprendere e divulgare con ogni mezzo la centralità sociale, culturale e “sistemica” dell’istruzione permanente in tutte le sue parti? Ed è in questi periodi emergenziali che tali interrogativi emergono a gran voce portando in evidenza criticità già note e mai risolte; una società democratica oggi non può fare a meno di interrogarsi su questo. Il dubbio dilaga ancor più se si pensa che la scuola si è trovata completamente impreparata a gestire l’emergenza pandemica e il conseguente diritto allo studio. Esautorata del suo principale ruolo costituzionalmente sancito di garante e fornitore di istruzione e formazione non è stata in grado di cogliere le pericolose insidie che si celavano in un sistema emergenziale protratto nel tempo come la didattica a distanza e tutto il sistema di restrizioni alle libertà individuali di studenti e personale scolastico.
Nel merito voci autorevoli si sono espresse non ultima quella dell’attuale presidente della Corte Costituzionale Giancarlo Coraggio il quale sottolinea che la compressione del diritto allo studio non esaurisce l’effetto dannoso nel periodo in cui questa limitazione si esplica, ma riverbera negli anni a venire su tutta la formazione degli studenti che lo subiscono, creando dei gap sempre più incolmabili. Queste misure emergenziali evidenziano come gli effetti deleteri colpiscano maggiormente le categorie più fragili inserite in quei contesti a rischio in cui la scuola rappresenta l’unico avamposto della legalità, nonché l’unico riferimento educativo. Qui la risposta a tali misure è stata quella di un aumento esponenziale della dispersione scolastica, dispersione che si tramuta in una fonte primaria di manovalanza per la criminalità organizzata. E a preoccupare non è certo un anno scolastico perso ma piuttosto queste vite quasi irrimediabilmente bruciate, poiché una vita che devia dai binari della legalità non ha premesse, non ha futuro per attecchire, crescere e maturare in un contesto sociale sano. Di queste vite la Società ne è responsabile e non in forza di un più o meno sentito principio etico morale lasciato alla sensibilità di ciascuno di noi , ma per un principio sancito dalla nostra Carta Costituzionale all’art, 3 al II comma quando recita che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana; in pratica è compito preciso dello Stato garantire il diritto di ogni individuo ad essere felici, diritto di cui la scuola può e deve avere una responsabilità primaria, laddove pone la basi per sviluppare in ciascuno studente una coscienza critica che gli consenta, poi, di discernere ciò che è il proprio Bene per se e per la società da ciò che non lo è.
E allora una riflessione si impone: fino a che punto nell’ambito dei diritti costituzionalmente garantiti, si può riconoscere una prevalenza assoluta di un diritto rispetto ad un altro? Ritornando all’inizio di queste considerazioni, così come “Il Caligola”, anche la scuola deve essere considerata come un’opera che sfida. Sfida la persona a una lettura attenta del se, della sua morale, dei suoi pregiudizi etici. Non pretende di risolvere i grandi interrogativi esistenziali, ma ha il merito di infettarli con il salutare bacillo del dubbio per guadagnare quel qualcosa di importante: il privilegio raro di avere qualche certezza in meno.