Un piano strategico per Trieste,non solo per Porto Vecchio
La firma dell’accordo di programma per lo sviluppo e la riqualificazione di Porto Vecchio è senza dubbio una buona notizia.
Lo è innanzitutto perché dopo tante polemiche, almeno per una volta, siamo (quasi) tutti d’accordo sulla strada da intraprendere. Sono lontani i tempi in cui, all’indomani del mio emendamento al Senato che sdemanializzava quell’area, Lega e Forza Italia cercavano di bloccarlo alla Camera sostenendo che avrebbe “depauperato Trieste e aperto la strada alla speculazione edilizia”.
“Solo i morti e gli stupidi non cambiano mai idea” scriveva un famoso poeta: poter immaginare per Porto Vecchio uno sviluppo che superi gli immobilismi del passato è, come stanno sottolineando sulle pagine di questo giornale autorevoli esponenti, una grande opportunità di crescita per tutta la città.
È pur vero, però, che alle grandi opportunità sono associati, spesso, rischi altrettanto rilevanti: il depauperamento di altre zone della città e la speculazione edilizia di cui parlava l’allora capogruppo alla Camera della Lega Massimiliano Fedriga sono due conseguenze possibili di una progettualità non sviluppata in modo corretto.
Malgrado le difficoltà e le lentezze di questi anni – ce ne sono voluti 6 per firmare un accordo di programma – continuo, però, ad essere positivo: credo che la riqualificazione di Porto Vecchio unita alla contestuale possibilità di utilizzare al meglio i punti franchi lì dove possono essere davvero utili, sia per questo territorio la più grande occasione dal dopoguerra ad oggi.
L’unica potenzialmente in grado di riportarci ad essere la città dinamica, ricca e internazionale che era ai tempi d’oro di metà Ottocento: una città ai vertici del commercio, della finanza, dell’innovazione e della cultura in Europa.
Per farlo, però, innanzitutto dobbiamo guardare e prendere esempio da chi, partendo da contesti per certi versi sovrapponibili al nostro (anche se spesso su scala maggiore), è riuscito a rendere aree dismesse e abbandonate occasioni di sviluppo e crescita sostenibile capace di attrarre sviluppo – inteso nel più ampio dei suoi possibili significati – a favore di tutti i cittadini.
Penso a città come Berlino, Milano, Sydney, Seattle, Londra, Dublino, Amburgo, Copenaghen e Barcellona: il minimo comune denominatore di queste aree urbane – e delle loro amministrazioni – è che prima di pensare a come riqualificare singole porzioni di territorio hanno ragionato sulle coordinate chiave per lo sviluppo economico e sociale di quelle comunità per i decenni futuri, raccogliendole in un piano strategico, costruendo strutture e procedure trasparenti e coinvolgendo professionisti di livello internazionale, capaci di interfacciarsi con i più grandi e sofisticati investitori a livello globale
Lo hanno fatto essenzialmente per tre ragioni:
- la preparazione di un piano strategico obbliga gli amministratori della città a interrogarsi in modo analitico, professionale e scevro da considerazioni elettorali di breve periodo sugli obiettivi a lungo termine sulle azioni da perseguire e le risorse da reperire per raggiungerli;
- il piano strategico, una volta predisposto, permette ai vari attori pubblici e privati di operare in modo coordinato per raggiungere obiettivi chiari e condivisi;
- un piano pluriennale consente a potenziali investitori, imprenditori e – perché no – anche a studenti o lavoratori in procinto di trasferirsi per motivi lavorativi, di visualizzare un futuro possibile di sviluppo economico della città in cui investire capitali oppure le proprie scelte professionali.
Solo così la riqualificazione di Porto Vecchio potrà essere per noi il volano di crescita ed investimenti che Porta Nuova e City Life hanno rappresentato per Milano o il progetto trasformativo che per Dublino è stato l’International Financial Services Centre.
Ma prima di pensare a cosa fare Trieste deve interrogarsi su cosa vuole diventare da qui a 30 anni; decidere quali sono le direttrici di sviluppo su cui convogliare gli investimenti pubblici e privati e poi declinarle su tutte le aree della città, Porto Vecchio incluso.
Comprendo “l’ansia del fare” di questa amministrazione, capisco meno l’allergia – manifestata più volte – a qualunque cosa si configuri come un documento programmatico di ampio respiro. Non basta agire: bisogna farlo seguendo una strategia ben delineata. Altrimenti il fare oltre ad essere sostanzialmente inutile può diventare dannoso: se Porto Vecchio verrà gestito solo come un serie di lavori pubblici per ristrutturare singoli magazzini fuori da una visione unitaria, assisteremo all’ennesimo sperpero di soldi pubblici con pochi investimenti privati e zero impatto sulla città.
Quanto sia importante mettere su carta in maniera intellegibile cosa si vuole fare – e in che modo – ce lo sta dimostrando anche l’esperienza nazionale del Recovery Plan: senza un piano strutturato, credibile e sostenibile, nessuno dà credito o sceglie di investire su di te.
Io credo che questo sia un rischio che a Trieste non possiamo permetterci di correre: ne va del nostro futuro e di tutti noi e della responsabilità che abbiamo nei confronti delle nuove generazioni.