Appunti per
Trieste 2021
A chi scrive sembra che la destra persegua, a grandi linee, un filone di sviluppo della città che rimane molto in sintonia con la tradizione di Trieste città-emporio, in cui ai mitici clienti oltreconfine di altre epoche si sostituiscono ora i turisti, variamente declinati e sedotti da diverse attrazioni. Ovviamente non si mette in dubbio che il turismo abbia regalato in questi anni, fino alla pandemia del 2020, anni di crescita economica alla città ma è possibile che rappresenti il pilastro su cui basare lo sviluppo futuro di Trieste? Credo che anche da destra si dovrebbero riconoscere oltre ai limiti di tale impostazione, (non abbiamo oggettivamente né le caratteristiche di una delle città d’arte del gran tour di Goethe né le spiagge di altre località balneari ) anche e soprattutto le sue discrasie sul tessuto socio-economico cittadino. Non si può non riconoscere infatti che il settore del turismo solo in parte crei lavori ad alta qualifica e che se la domanda di molte delle mansioni non qualificate non viene soddisfatta localmente ovviamente si indurrà immigrazione a basso capitale umano. A questo si aggiunge poi che le statistiche riportano che Trieste, tra le province italiane, ha la più alta percentuale di giovani che emigrano, giovani con titolo di studio che vanno a cercare opportunità all’estero che qui non ci sono. Mi pare che a livello nazionale la destra stia contestando proprio questi processi laddove invece a livello locale indirettamente finisce per favorirli. Inoltre, si badi bene, i vantaggi economici di questa scelta strategica ci sono, ma sono concentrati e non diffusi come un tempo dato il trend attuale nella distribuzione sempre più in mano a catene internazionali (così come peraltro negli alberghi e nella ristorazione). E’ quindi un miraggio che questa scelta avvantaggi nei fatti la costituency della destra come i piccoli imprenditori del commercio ad esempio.
A questa opzione che potremmo definire opzione “emporio” mi pare che se ne contrapponga un’altra che potremmo invece definire un po’ enfaticamente “città della scienza”. Una visione che interpreta il futuro e sogna start-up, incubatori di idee, enti di ricerca e alta formazione. Purtuttavia non si possono nascondere le criticità anche di questo progetto. In primis, bisogna ammettere che quarant’anni e più di investimenti sia in strutture fisiche che personale collegati a questa visione non hanno prodotto valore aggiunto per un multiplo molto diverso da uno. In altre parole il famoso sistema della scienza di Trieste, una lista impressionante di enti piccoli e grandi, ha generato indotto e reddito ma non certamente quello sperato dai suoi promotori e forse, paradossalmente, più fattivo è stato il contributo all’economia locale dato dalla formazione del capitale umano di facoltà universitarie più tecniche che scientifiche. I motivi sono sostanzialmente due: la mancanza di un sistema produttivo collegato al sistema della scienza (con caratteristiche e dimensioni in grado di giovarsene) e la mancanza di un coordinamento del sistema Trieste che porti ad una visibilità a livello internazionale che negli anni della globalizzazione è diventata sempre più cruciale. Su quest’ultimo punto, lungimirante è stata la riforma universitaria di Macron in Francia che ha creato con un tratto di penna la 14-esima università nel ranking mondiale e terza in Europa (l’Université de Paris-Saclay) aggregando laboratori, enti di ricerca e università in un’unica istituzione. A Trieste servirebbe un’operazione del genere per attrarre studenti , finanziamenti e insediamenti di imprese multinazionali. In verità quest’ultimo aspetto sarebbe quanto mai importante. Affinché si attivi veramente la Trieste città della scienza occorrono infatti aziende innovative e partecipate da multinazionali, le uniche in grado di creare quei posti di lavoro qualificati che i nostri figli cercano all’estero.
Se poi vogliamo che il sistema della scienza attivi veramente indotto per la città attraverso i servizi per gli studenti e i ricercatori non possiamo privilegiare solo l’alta formazione e la ricerca ma tutta la filiera educativa universitaria che ha perso migliaia di studenti in questi anni; e giocoforza, visti i trend demografici nazionali negativi, tutte le componenti del sistema della formazione dovranno passare per non semplici processi di internazionalizzazione: un vera sfida.
Lo sviluppo e la prosperità di una città è, tranne rari casi, un processo multidimensionale complesso che richiede un coordinamento tra agenti economici e istituzioni, ma proprio perché così complesso occorre che un dibattito pacato e civile chiarisca bene le ipotesi e le conseguenze delle varie opzioni. Lungi dal credere di averlo esaurito (sarei in contraddizione) spero di aver contributo a questo dibattito seppur in piccola parte.